Il «piano decennale» di Salvemini
Non aveva fiducia, Gaetano Salvemini, nei partiti antifascisti rappresentati alla Costituente. Nel 1947 li riteneva responsabili di «spropositi e bricconate». Non apprezzava Alcide De Gasperi, troppo legato al Vaticano, e neppure Palmiro Togliatti, colpevole di aver accettato l’inserimento nella Costituzione del Concordato fascista. Del resto poco si era fatto, a suo parere, per cancellare l’eredità del regime, ancora ben viva.
È questo il tono generale del Diario del 1947 (Biblioteca Clueb), un resoconto del viaggio che Salvemini, proveniente dall’America, fece in Europa e in Italia tra l’estate e l’autunno di quell’anno, pubblicato ora in edizione integrale, nel centocinquantesimo della nascita dell’autore, a cura di Mirko Grasso, con un’appendice di articoli coevi.
Nonostante la sua insoddisfazione per la situazione politica, Salvemini non era del tutto pessimista. Riteneva che le energie sprigionate dalla Resistenza potessero ancora essere utilizzate proficuamente. Constatava la delusione di molti giovani ex partigiani e li spronava a un lavoro di lunga lena, un «piano decennale» così prefigurato: «Ci vogliono dieci anni di astinenza dal governo e dalle miserabili contrattazioni parlamentari, rieducazione della gioventù, preparazione di idee concrete sul da fare quando si va al governo su non più che mezza dozzina di materie essenziali, e fra dieci anni fare la epurazione che non è stata fatta tra il 1944 e il 1946, aggiungendo agli epurandi del fascismo quelli del post-fascismo».
Un proposito sicuramente irrealistico, che sottovalutava la presa dei partiti di massa e la necessità di governare nell’immediato la ricostruzione. Ma Salvemini era così: integerrimo e alieno da compromessi, convinto della necessità di rieducare un’Italia che però non era affatto intenzionata ad ascoltarlo.
Recensione di: Antonio Carioti, Corriere del Sera (quotidiano), 23-08-2023
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