Storie dal manicomio, recensione di Gaddomaria Grassi

Sorgente: Gaddomaria Grassi, Rivista Sperimentale di Freniatria (Franco Angeli), Fascicolo 3/2022

Gli archivi degli Ospedali Psichiatrici rappresentano una fonte documentale preziosa per la conoscenza nel campo della storia della medicina e più in generale della storia sociale. Ci parlano dei primi passi e dello sviluppo di una istituzione importante e longeva, il manicomio; ci raccontano anche dello sforzo di una nascente disciplina, la psichiatria, di affermare il suo ruolo, sempre in bilico fra velleità di cura e compiti di custodia e di esclusione sociale. Soprattutto ci permettono di far riaffiorare, spesso filtrate dalle descrizioni degli alienisti ma a volte anche direttamente dagli scritti stessi dei ricoverati, le vite di uomini e donne che in manicomio hanno trascorso buona parte della loro la vita.
Il San Lazzaro di Reggio Emilia è stato uno dei più importanti manicomi italiani, per l’autorevolezza degli alienisti che vi si sono succeduti, in particolare dagli anni 70 dell’Ottocento fino al primo decennio del XX secolo, per la sua partecipazione al dibattito scientifico, per l’originalità del suo pensiero. Proprio a partire dagli anni 70 dell’Ottocento il Frenocomio San Lazzaro di Reggio Emilia, termine preferito a quello di Manicomio per sottolineare l’appartenenza della disciplina alle scienze positive e il fatto che la malattia mentale altro non era che una malattia del cervello, si dotò di cartelle cliniche, che oggi rappresentano il più importante patrimonio del suo archivio.

Di questo materiale, Francesco Paolella, profondo conoscitore della storia della psichiatria e dell’archivio del San Lazzaro, si è servito per riprendere, con Storie dal manicomio, un lavoro di ricerca storica che già aveva condotto in passato ed era stato oggetto di altre importanti pubblicazioni. Nel suo “Storie dal manicomio” Paolella ricostruisce le biografie di alcuni ricoverati: fra questi diversi casi che definiremmo esemplari, di particolare interesse per una scienza che, all’esordio, cercava di ricondurre alle sue categorie nosografiche ogni forma di originalità e di deviazione dalla media; e anche storie di persone che a lungo hanno reclamato la libertà e che solo il tempo e la routine istituzionale erano riusciti a spegnere; storie di persone che hanno incrociato, a volte casualmente, l’istituzione psichiatrica e altre che hanno passato la vita intera in manicomio.

L’indagine di Francesco Paolella è compresa nell’arco di tempo che va daglianni70dell’Ottocentoallimite imposto dalle normative sulla privacy (la fine degli anni 40). “Storie dal manicomio” è un testo coinvolgente e di agile lettura ma al contempo ricchissimo di spunti di riflessione. A una breve introduzione storica relativa al Frenocomio San Lazzaro seguono in successione le biografie dei ricoverati; scelte, come dice l’autore nell’introduzione, perché “ognuna di loro si è imposta da sola risaltando per la propria singolarità”. Certo, non tutti gli internati godettero dello stesso interesse da parte dei medici del San Lazzaro e sappiamo che di tante altre vite trascorse in manicomio non restano che poche tracce; sono in qualche modo “privilegiate”, ma queste biografie ci raccontano tanto di ciò che significava essere internati in manicomio; sono la conferma che nel corso del XIX e poi ancora del XX secolo la società italiana, così come accadeva negli altri paesi europei, aveva scoperto (e imparato a servirsene) un luogo e dei medici a cui affidare i suoi membri malati di mente.
Lo strumento della ricerca di Paolella, la cartella, è in realtà molto di più di una semplice cartella medica, così come la intenderemmo oggi, per le modalità dell’osservazione e per l’abitudine degli psichiatri dell’epoca di farne un raccoglitore di ogni tipo di informazione sul paziente: in primis gli scambi epistolari fra il paziente e i famigliari, le immancabili lettere (in genere suppliche) dei pazienti al Direttore del Manicomio e ad altre autorità, i carteggi istituzionali e anche, per i pazienti “famosi”, altre fonti documentali quali ad esempio gli articoli di giornale. Una disciplina come la psichiatria che era, ed è, povera di strumenti di valutazione oggettivi raccoglieva ogni tipo di materiale di osservazione e di conferma diagnostica.
In “Storie dal manicomio” troviamo, a partire dalle fonti documentali, la descrizione dei rapporti complessi e difficili fra i ricoverati e le loro famiglie (come nel caso del paziente a cui era stata diagnosticata la “follia morale” e che per due volte era stato imbarcato dai famigliari con destinazione America); dalle biografie dei pazienti ricaviamo anche informazioni sui rapporti fra istituzioni (ad esempio la preoccupazione delle prefetture in occasione delle dimissioni di alcuni pazienti a rischio di turbare l’ordine pubblico o l’imbarazzo del vescovo, che chiede al direttore del manicomio la cortesia di far indossare ad un sacerdote, durante la degenza, abiti secolari). Da queste letture troviamo conferma di ciò di cui da almeno quarant’anni abbiamo consapevolezza e cioè che il manicomio rappresentava un contenitore indistinto non solo per diverse forme di follia ma anche di ogni tipo di devianza.

Attraverso le storie dei pazienti Paolella ci fa rivivere anche lo stupore e l’interesse degli psichiatri di fronte alle incomprensibili manifestazioni della mente umana: fra i loro pazienti c’era chi si credeva guidato a distanza da interferenze elettriche e chi, dotato di memoria straordinaria, agli alienisti dell’epoca chiedeva un patentino di anormalità con cui esibirsi nei teatri. “Storie dal manicomio” ci propone anche indirettamente, attraverso le vite dei suoi ricoverati, i temi che all’epoca dominavano il dibattito scientifico. Dalle cartelle cliniche infatti si ha evidenza di una psichiatria positivista interessata a scandagliare l’albero genealogico alla ricerca di tratti somatici alterati che permettessero di ricondurre il caso alla tara ereditaria e alla degenerazione, chiavi di lettura dominanti all’epoca. Le teorie lombrosiane, che vedevano in sostanziale continuità genio, follia e delinquenza trovarono sicuramente conferma negli alienisti del San Lazzaro nel ricovero, alla fine degli anni 80 dell’ottocento, di Achille Paganini figlio del celebre Niccolò. Sullo sfondo, una società in cui si fronteggiavano metodo scientifico e credenze irrazionali: manie religiose, spiritismo, occultismo, superstizione, ciarlataneria, ponendosi al confine con l’idea folle, richiedevano il parere esperto dell’alienista. Come nei casi, che ci presenta Paolella, di Adele e del Libro del comando (senza dimenticare che gli alienisti stessi, in primis proprio il celeberrimo Cesare Lombroso ed Enrico Morselli, erano affascinati da quel mondo magico e faticavano a prenderne le distanze).

Infine, dal libro di Francesco Paolella emerge forte il contrasto fra queste storie e l’istituzione, con la sua inesorabile forza livellatrice. Secondo Franco Basaglia il manicomio era un luogo finalizzato al completo annientamento dell’individualità del paziente, luogo di totale oggettivazione. “Storie dal manicomio” è un libro riuscito e ha il merito di far riaffiorare la vita di persone dimenticate, la loro umanità, in molti casi anche la loro resistenza all’appiattimento, all’omologazione istituzionale. Queste biografie in fondo, come scrive Paolella, “mostrano l’irriducibilità fra la libertà del singolo e dei suoi comportamenti e ciò che le regole sociali generali impongono”.

Gaddomaria Grassi

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