Descrizione
Il libro si propone di offrire uno sguardo sui caratteri originali della storia delle professioni negli stati italiani dell’età moderna. I problemi esaminati nei vari saggi toccano dunque i criteri attraverso i quali si perviene all’esercizio di una professione; i modi di attuazione della propria attività: il ruolo dei collegi che raggruppano i membri, oppure le élites, dei vari corpi organizzati; la definizione dei rapporti fra il singolo, il collegio e l’autorità pubblica in materia di accesso alla professione e di controllo della sua efficacia e regolarità. Nella prima età moderna emerge una situazione di labilità dei confrini tra compiti e mansioni legati ad uno specifico sapere, ed anche una difficoltà a definire, specie nel campo medico-sanitario, gli spazi fra il lecito e l’illecito, tra il mestiere manuale e l’arte nobile. In questo contesto appare cruciale la valutazione della “onorabilità” dell’individuo e della sua attività, sia nella trattatistica che nelle regole statutarie che si danno i collegi per selezionare l’appartenenza al gruppo, non solo sulla base delle competenze acquisite ma anche in relazione alla nascita e alla posizione rivestita dalla gerarchia sociale. Ne costituisce un significativo lascito lessicale il concetto di “honorarium” che distingue la remunerazione riservata a giuristi e medici da quella prevista per la pratica delle mansioni vili e meccaniche. Saranno le riforme dell’età napoleonica a formulare la cornice normativa dell’agire professionale, sganciandolo dal sistema corporativo dei collegi e ancorandolo a quello della pubblica autorità: in tal modo lo Stato, che ridefinisce i percorsi formatici e qualifica le aree di competenza, entra con forza – accanto al ruolo del mercato – nel controllare i meccanismi dell’operare di avvocati e notai, medici ed ingegneri.
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